Cappone piemontese ripieno

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Descrizione

Il Cappone ripieno, un classico da portare in tavola per le feste.
Che sia farcito o cotto al forno, il Cappone ha una parte da protagonista sulle tavole italiane.

La storia di questo animale di nobili e antiche origini comincia molto lontano nel tempo: sembra infatti che già nel VII secolo a.C. gli abitanti dell`isola di Delo praticassero la trasformazione del gallo in cappone. Da qui il nome di deliaco (deliacus gallinario), nome attribuito a chi provvedeva alla castrazione del gallo; così compare anche negli scritti di Cicerone e Plinio.

Il termine “cappone”, invece, deriva (attraverso il latino capo,-onis) proprio dal verbo greco “kopto” che ha il  significato di “tagliare”, a causa della castrazione ai danni dell’animale. Tale trattamento rende la carne molto più saporita e tenera di quella del pollo normale e particolarmente adatta per la preparazione di prelibate pietanze.

E se nell’antica Roma veniva allevato per aggirare la legge che proibiva di crescere  polli in casa, è nel Rinascimento che il nostro Cappone, culinariamente parlando, vive il suo momento d`oro; in occasione di grandi banchetti i poveri animali venivano presentati ricoperti di lamine del prezioso metallo. Era considerato un alimento raro e ricco, da gustarsi nelle grandi ricorrernze; infatti li  troviamo spesso in bella mostra sulle tavole delle grandi corti rinascimentali, apprezzato anche per il valore decorativo del suo piumaggio, insieme a quello del pavone.

Gli antichi, comunque, non erano privi di attenzione alla qualità del buon cibo e non trascuravano affatto questo aspetto, tanto che già allora si “capponava” il gallo anche per motivi gastronomici, soprattutto perché il gallo, invecchiando, diventa duro e meno buono; il cappone, al contrario, può addirittura migliorare, almeno fino a 15 mesi di età.

Per secoli sia nelle famiglie dell’alta borghesia che nelle case più umili, dove veniva cucinato a Natale, il Cappone difficilmente mancava, spesso acquistato a fronte di notevoli sacrifici. In altri casi era un regalo prestigioso che, data la sua prelibatezza, veniva offerto dalle persone umili a quelle di rango per ingraziarsi favori e protezione. Un’usanza che anche il Manzoni richiama nei Promessi Sposi, quando racconta di Renzo Tramaglino e i quattro capponi vivi portati in dono all’avvocato Azzeccagarbugli.

La prima a definire con precisione il procedimento  della castrazione è proprio una donna, M.me Millet-Robinet nel 1856, la quale indica nei 4 o 5 mesi l’età giusta per l’operazione, che poi veniva svolta in modo molto primitivo sull`animale tenuto a digiuno. Si faceva un taglio di circa 5 cm nell`addome con le forbici, quindi si introducevano due dita nella cavità addominale e si asportavano i testicoli. Solo le mani di una donna (la massaia o la “praticona”) potevano essere adatte; dopo una sommaria disinfezione, veniva ricucito. Il povero cappone nella migliore delle ipotesi rimaneva stordito per un paio di giorni; ma la mortalità, purtroppo, era molto alta,  perché gli animali sottoposti a tale pratica,  al contrario di quanto succede oggi, erano già adulti. Oltre gli speroni si tagliava anche la cresta, per riconoscere facilmente il cappone dal gallo.

 

Far capponi, dunque, era una faccenda da donne: “la praticona” andava in giro per le corti a compiere questo rito a cui tradizionalmente non potevano assolutamente accedere gli uomini. Credenza popolare voleva che la presenza di questi ultimi avrebbe compromesso la buona riuscita dell’intervento.

Sulle aie delle numerose corti razzolavano sovente i capponi. Meno considerati rispetto ad altri animali utili nei campi come buoi, asini cavalli e maiali, non entravano nei censimenti e negli inventari; erano un bene ed erano comunque fondamentali per la sussistenza della famiglia. Infine, fare capponi era anche un’esigenza dettata dal fatto che avere più di un gallo nel pollaio sarebbe stato una specie di spreco.

Oggi la castrazione è una pratica perfezionata che non fa quasi più vittime fra i polli; l’importante è che venga fatta quando l’animale è ancora giovane. La preparazione del Cappone è prerogativa esclusiva delle donne, perché richiede mani fini e abili. Ed è la conclusione di un lavoro paziente iniziato in primavera, con la schiusa dei pulcini. Nei primi giorni la loro dieta è a base di mangime vegetale e poi sono lasciati liberi: i galletti (e poi i capponi) devono disporre di almeno cinque metri quadrati di spazio all’aperto e sono rinchiusi la notte, tenuti al riparo dalle intemperie. Ciò permette all’animale di finire il suo accrescimento senza alcuno sforzo; in questo modo non sviluppa uno strato di grasso, ma la cosiddetta “pelle d’oca”, che lo renderà più tenero e morbido.

La castrazione avviene ad agosto, permettendo ai capponi di crescere per altri quattro, cinque mesi e di essere pronti a Natale; non si macellano mai prima di 220 giorni, regole europee.

I capponi poi vivono molto di più rispetto ai polli da carne: 200 giorni in media i primi contro i 50 giorni dei secondi. Per questo motivo le qualità organolettiche delle carni di cappone sono migliori: la carne è tenera e bianca e tiene molto bene la cottura.

Il Cappone, oltre ad essere un piatto davvero gustoso, ha anche rilevanti proprietà nutritive: ha pochi grassi, circa il 10%, contenuti soprattutto nella pelle, ha un buon contenuto proteico ed è molto digeribile. Inoltre contiene sodio, potassio, fosforo, magnesio, ferro e selenio e vitamine B1, B2.

 

Originariamente era allevato perlopiù nelle campagne del Piemonte; non a caso la ricetta più nota è proprio quella piemontese. Messo all’ingrasso, il Cappone veniva nutrito con quanto di meglio era disponibile, proprio per fargli prendere più peso possibile. In Lombardia, invece, ogni famiglia ne allevava almeno quattro, perché dovevano essere mangiati rigorosamente a Sant’Ambrogio, Natale, Capodanno e all’Epifania. Nella maggior parte dei casi veniva consumato arrostito e ripieno di ogni ben di Dio: salsiccia o altri insaccati di maiale, mele o prugne, ma anche noci e castagne. Sono queste ultime, però, che rappresentano da secoli uno degli ingredienti caratterizzanti il ripieno; poi le tradizioni regionali e familiari hanno moltiplicato le ricette, aggiungendo aromi e bagnando il cappone con il vino o con il brandy. Ma il segreto per un ottimo risultato del piatto, in qualsiasi modo lo si prepari, è una cottura lenta.

Il Cappone è una delle specialità natalizie più radicate e diffuse a livello regionale, ma è anche presente in ampie aree dell’Italia nelle sue differenti declinazioni culinarie. Un piatto della nostra memoria.

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